OBBEDIENTI A BRUXELLES di Leonardo Mazzei

Autunno, cadono le foglie. E mentre l’incuria del territorio diventa “cambiamento climatico”, ed i sindacati metalmeccanici vorrebbero chiudere la stalla (“Stallantis”) quando i buoi son già fuggiti, ecco che arriva il governo quatto quatto a consegnare il suo compitino di stagione da inviare diligentemente a Bruxelles.

Bravi! Anche quest’anno hanno scritto la finanziaria (alias “Legge di bilancio”) più insignificante dell’orbe terraqueo. Una fotocopia di quella dell’anno passato, che era stata ricalcata con la carta carbone da quella del 2022, a sua volta un copia incolla della finanziaria di Draghi. Così fanno i servi dell’oligarchia eurista, peggio ancora quando vorrebbero travestirsi da temibili “sovranisti”.

Diciamolo con chiarezza: in materia di servilismo il governo Meloni ha ormai battuto ogni record. C’è da fare la guerra alla Russia? Vai con l’invio di soldi ed armi all’Ucraina. C’è da sostenere il genocidio di Israele? Sempre in prima linea al fianco di Netanyahu. C’è da rispettare il nuovo Patto di stabilità voluto dall’Unione Europea? Siamo i primi della classe a tagliare spese e ad aumentare le tasse.

Alla fine del 2023 la politica italiana visse un curioso momento di confusione totale. Nel giro di 24 ore il governo Meloni pronunciò un no ed un sì all’Unione Europea. Peccato che il no contava poco, il sì invece molto. Dopo il no alla riforma del Mes, arrivò infatti il sì ben più pesante al nuovo Patto di stabilità. Il leghista Borghi spiegò questa clamorosa contraddizione dicendo che siccome “due no non si potevano dire” (chissà perché…), loro avevano scelto il “male minore”.

Da parte nostra spiegammo subito che era vero piuttosto il contrario. A caldo, il 23 dicembre scorso, scrivemmo che: «Per i custodi dell’ortodossia ordoliberista è molto più importante aver portato a casa il nuovo Patto di stabilità che la riforma del Mes». Il Mes, infatti, aveva perso già allora il grosso delle proprie funzioni, essendo stato sostituito alla grande dal Pnrr, un vero e proprio super-Mes che nessuno mette in discussione e che ha imposto all’Italia ben 528 condizioni da rispettare. Altro che Mes! Ben diverso il discorso sul nuovo Patto di stabilità, che detterà invece le danze in materia di bilancio per i prossimi anni.

Siamo così arrivati al dunque dell’attuale legge finanziaria. Giancarlo Giorgetti ha applicato in pieno il nuovo patto siglato nel 2023, con la sua austerità e le sue nefaste conseguenze sull’economia italiana. Da leghista di stretta osservanza draghiana, ha fatto il suo solito lavoro di inattaccabile custode del rigore targato Ue. Messi tutti insieme, Draghi, Monti, Letta e Ciampi non avrebbero saputo far di meglio. Al confronto le finanziarie di Renzi erano frizzanti e degne di discussione, il che è tutto dire!

Naturalmente, nessuno stupore. In uno Stato libero e sovrano la Legge di Bilancio sarebbe lo strumento principale di una cosa che è ormai andata in disuso, quella “politica economica” che ogni governo avrebbe il dovere di elaborare e proporre per affrontare i principali problemi economici e sociali. Ma nel mondo del neoliberismo pienamente dispiegato, peggio se pure nella gabbia ordoliberista dell’Ue, parlare di “politica economica” è ormai un’impronunciabile bestemmia statalista e socialistoide. Dunque, tutto il potere ai ragionieri dello zerovirgola! Esattamente il mestiere del Giorgetti!

Tutto ciò serve all’incommentabile Meloni a farsi bella in Europa e davanti ai mercati. Di fronte a cotanto servilismo Bruxelles applaude ed i mercati gioiscono, mentre i tristi economisti bocconiani sono ormai in crisi di astinenza: cosa possono ancora chiedere di fronte ad una piena capitolazione come questa?

Nel settembre 2022, quando già si profilava con nettezza la vittoria meloniana alle elezioni, prevedemmo l’assoluta continuità del suo governo con quello ancora in carica di Draghi. Così scrivevamo allora:

«Quel che è certo è che Meloni ha già indossato i panni di Draghi: quelli della responsabilità europea e dei conti in ordine, oltre a quelli più scontati di un’ortodossia atlantica condita col suo sfegatato odio anti-russo».

Quella continuità, che l’ha sdoganata nei palazzi che contano – la qual cosa è mal digerita dalla finta opposizione piddina –, non è però scevra da problemi, come già prevedevamo due anni fa: 

«Di sicuro la destra si troverà davanti all’impossibilità di tenere fede alle innumerevoli promesse di questa campagna elettorale, in particolare quelle sul fisco. Da qui una probabile accentuazione dei temi identitari (il presidenzialismo per Fdi, l’immigrazione per la Lega) al fine di distogliere l’attenzione su un fallimento annunciato. Ma anche in questo caso i problemi non mancherebbero. Al presidenzialismo meloniano, la Lega vorrà ovviamente accompagnare l’attuazione del regionalismo differenziato, una vera bomba politica e sociale nel bel mezzo di una crisi economica pesantissima».

Evidentemente quella previsione non era difficile, visto che questo è esattamente il quadro attuale. La Legge di Bilancio 2025 ha una chiara natura recessiva ed antisociale. Il taglio del cuneo fiscale ci viene venduto ogni anno come una novità, peccato che non lo sia. Quel taglio serve solo a non affrontare la questione salariale (e difatti Confindustria ringrazia), ma il poco che verrà risparmiato sull’Irpef verrà abbondantemente ripreso con la solita pletora di interventi più nascosti: dall’aumento delle accise su gas e gasolio, al massiccio taglio delle detrazioni fiscali, a quello delle spese dei ministeri che non è difficile immaginare su chi ricadrà.

Nel complesso, tra maggiori tasse e tagli alla spesa pubblica, il governo prevede di rastrellare ben 21 miliardi di euro. Una cifra che illustra assai bene la scelta austeritaria di Meloni e soci. Naturalmente – mica son fessi come certa “sinistra” – la parola austerità è adesso proibita. Un giochino reso più facile proprio da una finta opposizione ideologicamente ultra-europeista. Detto in altro modo, come fai ad attaccare Meloni quando applica le ricette dell’amata Bruxelles?

Rastrella di qua e rastrella di là, sempre badando a non dar troppo nell’occhio, il governo si vanta adesso del contributo (in realtà inesistente) chiesto alle banche. Di che si tratta esattamente? Quel “contributo” non è una tassa e non riguarda i giganteschi profitti realizzati grazie allo scandaloso differenziale tra interessi attivi e passivi, sul quale sia Draghi che Meloni si sono ben guardati dall’intervenire. Nel meraviglioso mondo dei liberisti la parola “tassa” è un tabù, tanto più se riferita alle banche private. Di profitti o, peggio, “extraprofitti”, nemmeno parlarne. Quei profitti, però, ci sono stati e in maniera scandalosa. Per anni, mentre prestavano denaro al 5-6% le banche hanno remunerato i conti correnti con lo zero percento. Facile la vita del banchiere, specie in tempi di inflazione!

Adesso verrà chiesto alle banche un modestissimo anticipo di cassa. Per il 2025 e 2026 verranno sospese (sospese, non abolite) alcune deduzioni fiscali di cui normalmente si avvantaggiano. Questo darà allo Stato un beneficio temporaneo di 1,75 miliardi all’anno per due anni, dopo di che quei soldi andranno restituiti fino all’ultimo centesimo alle banche. Insomma, alla fine un beneficio economico per lo Stato pari a zero. In tutta evidenza una presa in giro, una “furbata” pensata solo per scaricare i costi sui futuri governi.

Ma la cosa più grave è un’altra. Una Legge di Bilancio degna di questo nome avrebbe dovuto occuparsi di sanità, di pensioni, di scuola. Ed avrebbe dovuto proporre una politica economica ed industriale adeguata alla gravità della crisi. Di tutto ciò nella manovra varata dal duo Meloni-Giorgetti non c’è traccia. Si vivacchia sugli investimenti del Pnrr, obbedendo all’Ue in attesa di restituirgli i prestiti, così come prima si è galleggiato sul superbonus del 110%.

Scandaloso il nulla prodotto in due anni di governo sulle pensioni, alla faccia delle promesse elettorali e degli slogan sempre più sfiatati di Salvini. E mentre il definanziamento della sanità pubblica prosegue, con grande soddisfazione di quella privata, della scuola si è smesso perfino di parlare.

Alle promesse di Meloni-Salvini-Tajani credettero milioni di italiani, stanchi dell’austerità senza fine targata euro. Quanti continueranno a crederci in futuro lo vedremo. Ma lo scarto tra promesse e realtà mai è stato così grande. Ed alla fine i nodi vengono sempre al pettine. I finti sovranisti sono in realtà i più servili esecutori dei diktat europei. Mandiamoli a casa!

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