L’attacco americano sull’Iran potrebbe rivelarsi una tappa decisiva verso una Terza Guerra Mondiale pienamente dispiegata. A poche ore dal bombardamento di Fordow e di altre istallazioni militari iraniane, siamo già nel dopo Fordow. Ed è su questo che bisogna ragionare.
Non sappiamo (e forse non sapremo mai) quali siano stati gli effetti delle bombe GBU-57 Mop, l’ordigno “convenzionale” più potente, dunque il più vicino alla soglia nucleare. Quel che è certo è che non si ferma il programma nucleare di un Paese come l’Iran con un bombardamento. Lo si può ritardare, fermare no. E siccome questo lo sanno anche gli strateghi americani ed israeliani, è evidente che l’obiettivo vero è un altro: il regime change, l’installazione a Teheran di un governo piegato all’occidente collettivo.
E’ su questo obiettivo politico, sulla sua effettiva realizzabilità, sulla sua “accettabilità” per Russia e Cina, sulle sue eventuali conseguenze, che bisogna concentrarsi.
In questo senso i bombardamenti di stanotte ci dicono fondamentalmente tre cose: sulla guerra, sul Medio Oriente, su Trump.
- La guerra
Parliamo di Terza Guerra Mondiale dal 2022. Non perché l’abbia avviata Putin, ma perché i fatti di quell’anno – anzitutto il totale schierarsi dell’Occidente con l’Ucraina – hanno dimostrato l’assoluta volontà di distruggere la Federazione Russa, costringendola così ad una guerra esistenziale. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, mostrando sempre più la scelta della guerra come strumento decisivo per difendere gli attuali (dis)equilibri di potere. In breve, l’imperialismo americano non intende rinunciare al suo dominio sul mondo. E siccome questo dominio da tempo invece traballa, che guerra sia. Questa è la scelta compiuta. E da questo punto di vista, Trump o Biden nulla cambia. Se si prescinde da questa consapevolezza niente si capirà del presente, ancor meno di quel che ci attende nel futuro.
Ora vedremo, al di là delle rituali parole, quali saranno le reazioni effettive di Russia e Cina. Quel che è certo è che queste due potenze sono adesso chiamate a scelte difficili, forse anche tremende. L’escalation è evidente. La sfida americana, basata sulla convinzione di disporre ancora di un’adeguata superiorità militare, pure. Come reagire? Accettare questa escalation con tutti i rischi che ne conseguono, o prendere tempo puntando sul logoramento della strategia americana?
Ognuna di queste due opzioni ha delle evidenti controindicazioni, e non sappiamo cosa decideranno a Mosca e Pechino. Quel che sappiamo, che tutti dovremmo sapere, è che sia in un caso come nell’altro la strada verso un conflitto generale è ormai tracciata. Inutile girarci attorno.
E proprio perché ogni illusione dovrebbe essere bandita, c’è solo una cosa da fare: concentrarsi nella costruzione di un movimento di massa contro la guerra. Un movimento politico, che certo non escluda (anzi!) la giusta e necessaria carica etica e morale, ma che si ponga innanzitutto l’obiettivo politico di portare l’Italia fuori dalla guerra e dalla dinamica (riarmo ecc.) che l’alimenta.
2. Un Medio Oriente alla Netanyahu?
L’imperialismo è forte. Con le sue armi, le sue basi, i suoi denari. Tuttavia, l’imperialismo sbaglia spesso i suoi calcoli. Le sue equazioni si basano solo sui rapporti di forza. Operazione comprensibile, ma che non tiene conto di alcuni fattori fondamentali, tra questi la capacità di resistenza e di sacrificio dei popoli specie quando aggrediti in maniera così brutale.
Gli americani hanno già sperimentato questo “piccolo dettaglio” in Iraq ed in Afghanistan, vedremo come andrà in Iran. Certo, almeno per ora, qui non faranno l’errore di mettere gli stivali a terra (boots on the ground, come dicono loro), ma se il regime change fallisce, se l’Iran decidesse di chiudere Hormuz, quale sarebbe la prossima mossa?
Ecco l’ennesimo vicolo cieco dei guerrafondai occidentali. Lo stesso in cui si è cacciato Israele a Gaza. Se compiere un genocidio non assicura la vittoria politica, perché mai una campagna di bombardamenti – per quanto micidiali – dovrebbe essere sufficiente a spingere l’Iran alla resa? Eppure, è proprio questa la richiesta di Trump e dei primi europei che si sono pronunciati (tra questi il laburista Starmer ed il monarchico Tajani) dopo l’attacco di stanotte: ora che vi abbiamo bombardati non vi resta che la resa. Altra legge non conoscono.
I prossimi giorni saranno certamente decisivi, ma è difficile pensare ad una capitolazione di questo tipo, specie se il sostegno internazionale all’Iran dovesse rafforzarsi e diventare minimamente concreto. In ogni caso, pur in un quadro di grande difficoltà, chi scrive non crede all’ipotesi del regime change, perlomeno non nei termini desiderati dall’Occidente. Ne consegue che la situazione in Medio Oriente potrebbe farsi veramente esplosiva.
Del resto, è lo stesso intervento americano a dimostrare quanto sia difficile un Medio Oriente alla Netanyahu. Quando il criminale sionista ha iniziato la sua aggressione, esattamente nove giorni fa, la sua convinzione era quella di un tracollo rapidissimo a Teheran. Poi si sono viste le falle del sistema difensivo israeliano e molte certezze hanno iniziato a barcollare. Avere una superiorità militare e tecnologica sul nemico è importante, ma non sempre assicura la vittoria. Ecco allora le mostruose bombe su Fordow ed il pieno coinvolgimento degli USA. Ma spesso le “guerre lampo” diventano lunghe guerre di logoramento ed il futuro del Medio Oriente non è affatto deciso.
3. Trump, dalla padella alla brace
Scrivemmo a novembre che, contrariamente alle diffuse narrazioni in senso opposto, Trump avrebbe finito “per aggiungere nuova benzina all’incendio in corso”. Gli errori di analisi sono sempre in agguato e ci è capitato tante volte di sbagliare. Evidentemente non in questo caso.
Le autocitazioni non sono mai una cosa carina, ma come bisogna sempre cercare di imparare dagli errori, forse stavolta può essere utile capire il perché di quella previsione a caldo subito dopo le presidenziali americane.
Il fatto è che Trump aveva vinto quelle elezioni sulla base dello slogan programmatico MAGA (Make America Great Again). Ora, se le parole ed i programmi hanno un senso, MAGA significa guerra. Mica puoi “rifare grande l’America” cacciando gli immigrati, riducendo le tasse ai Paperoni e riportando sul suolo patrio qualche fabbrica.
La “grandezza” dell’America, cioè in realtà la sua capacità di dominio, è sempre stata legata alla sua forza, quella militare in primo luogo ed in ultima istanza. Certo che Trump avrebbe preferito vincere senza combattere (chi non lo vorrebbe!), ma il mondo è leggermente più complicato di quel che immagina.
In conclusione, il programma di Trump si scrive MAGA ma si traduce GUERRA. Una guerra fatta anche di minacce continue. Esattamente il giorno in cui Israele iniziava la sua aggressione all’Iran, il segretario alla Difesa Hegseth comunicava graziosamente al mondo di avere già pronti i piani per l’invasione di Panama e della Groenlandia. Così, tanto per far capire che aria tira.
A questo punto credo che il discorso su Trump, e sulle illusioni che si erano diffuse, sia definitivamente chiuso. Resta casomai da ribadire un punto. Così come Netanyahu è sì un mostro, ma lo è come autentica espressione dell’essenza del sionismo; pure Trump è un pazzo guerrafondaio, ma altro non è che la versione attuale di un potere imperiale che ha deciso la guerra già da tempo, per la precisione durante l’era democratica ed obamiana.
Con l’Iran che resiste!
Ieri a Roma abbiamo manifestato contro il riarmo europeo. L’abbiamo fatto diffondendo anche un volantino a sostegno della resistenza dell’Iran. Questa resistenza è importante, per certi aspetti decisiva. Trump e Netanyahu si sentono i padroni del mondo, ma non lo sono.
Sconfiggerli è possibile oltre che necessario. Di certo noi siamo con l’Iran che resiste!
