IMMIGRAZIONE E QUESTIONE NAZIONALE di Nello De Bellis

Ogni riflessione sul tema dell’immigrazione oggi variamente declinato in senso giuridico, politico, economico e culturale non può prescindere a nostro avviso  da un inquadramento e un confronto tra globalizzazione e questione nazionale. La prima è o è stata nei primi 20 anni del nuovo secolo una rimondializzazione capitalistica a guida americana che entrata in crisi,  a causa dell’emergere  o riemergere di nuovi poli strategici, cerca  oggi di rilanciarsi con una destabilizzazione imperialistica  di tipo geopolitico e militare ,mentre lo Stato nazionale appare  svuotato della sua sovranità finanziaria e politica, ma rimane (come osservava il filosofo Costanzo Preve) un nucleo legittimo di resistenza culturale alla logica dello sradicamento e dell’omologazione forzata del pianeta.

Occorre distinguere inoltre tra gli aspetti legittimi dell’identità storica e culturale americana e l’americanizzazione, ciè l’imposizione ideologica, mediatica e politica di un unico modello culturale improntato ad  un capitalismo totalizzante che non riconosce nulla all’infuori di sé  e produce per converso  un impoverimento progressivo e l’ identificazione regressiva con la cultura dominante. Le individualità personali e sociali si fondano invece  sulla pluralità e ricchezza delle rispettive culture nazionali. “Senza dialogo tra le nazioni non c’è neppure dialogo tra gli individui” (Preve). L’universalismo astratto  e l’umanesimo generico, ma pesantemente concreto sul piano del dominio economico, finanziario e ora militare, non può consistere nel  livellamento  forzoso delle differenze  e nella loro cancellazione in nome del pensiero unico e di un dominio senza neppure più egemonia.

“Chi parla due lingue, vive due vite”  (Goethe)

Il globalismo mondialista vuole che se ne parli una sola ( e possibilmente male, in modo da rimanere marginali e subalterni come forza lavoro a basso costo ed esercito di riserva della disoccupazione). Al di là di altri aspetti  non meno importanti, la questione cruciale rimane a nostro parere quella linguistica: “Non si abita un Paese, si abita una lingua “ (E. Cioran).
Il dato dell’integrazione non può prescindere da ciò. Al contrario assistiamo a migrazioni sempre più imponenti, in particolare nel bacino mediterraneo (dirette in gran parte verso il nostro Paese) in cui l’esigenza della comprensione linguistica è pressoché  ignorata e comunque non sentita  da ambo le parti col rischio concreto della creazione di ghetti forieri di problemi sociali e di convivenza civile. La multiculturalità e multienicità è possibile  a partire dal possesso preciso almeno di una  identità culturale di provenienza e di una lingua scritta e parlata, di una tradizione storica e culturale, non da uno sradicamento territoriale ed antropologico destinato a dissolversi nel mare magnum globalista.

Ciò costituisce già l’inconscio senso comune di massa di moltissimi connazionali che smetterebbero ogni diffidenza o pregiudizio se solo si permettesse agli immigrati della più diversa provenienza di diventare linguisticamente e culturalmente italiani, di condividere l’immaginario collettivo e il retaggio storico e artistico della civiltà italiana, senza beninteso rinunciare o rinnegare la loro cultura di provenienza (come prevede invece il modello francese o quello americano dell’integrazione subalterna), realizzando in modo democratico e funzionale  ciò che avviene già mediante la normativa costituzionale con le minoranze bilingui storiche (albanesi, catalane, greche, valdostane, tedesche).

Per questo fondamentale, anzi dirimente è il ruolo della Scuola, che però subisce da più di 20 anni  un lento stravolgimento della sua funzione culturale e formativa  in nome dell’omologazione  alle  sempre più dispiegate esigenze del  potere economico-finanziario  globalizzato . Né ci sembra possibile almeno nella presente fase porre correttamente il tema dell’immigrazione in un Paese che negli ultimi anni ha sempre  più accentuato a causa delle omogenee politiche  dei vari Governi, la sua inclusione subalterna nel blocco euro-atlantico  e  ai suoi indirizzi ordololiberisti e bellicisti. Decongestionare le aree urbane e le periferie degradate per rivitalizzare, in base a progetti calibrati con gli enti locali i centri  sempre più  abbandonati  della dorsale appenninica preparando  professionalmente e culturalmente artigiani, coltivatori e lavoratori qualificati, sarebbe una delle possibilità di integrazione virtuosa, invertendo il trend demografico negativo e formare i nuovi Italiani, ricchi del proprio retaggio e di quello acquisito. Ma condizione  imprescindibile di ciò è l’uscita dall’eurozona, dalla Nato e dall’Unione europea.

Né va dimenticato che le politiche dell’UE mirano ad una destrutturazione dello Stato nazionale e ad una “regionalizazione” dell’Europa che andrebbe tutta a vantaggio del potere monocratico di Bruxelles. Un ‘Europa delle regioni, già esistente sul piano economico dei vari progetti economici e finanziari (PON, FSSR, etc), sarebbe la fine dell’indipendenza  delle varie realtà ed entità  storiche e statuali. A ciò si aggiunga la peculiarità del caso italiano, dove a causa di un’unificazione storica tardiva, ancor oggi non si ha una  effettiva integrazione economica e culturale della società italiana a partire dalle varie regioni che costituiscono la compagine nazionale con la varietà dei propri dialetti, linguaggi e tradizioni locali. Giustamente Charles De Gaulle sosteneva (a partire dall’esperienza unitaria dello Stato francese, iniziatasi nel XV secolo) “che è difficile governare una nazione che produce più di 50 formaggi tipici”. La sola Sardegna ne produce più di un centinaio. Altro  elemento storico è la presenza, oltre alle propaggini dell’Ue, della NATO e del dominio euroatlantico, delle forze storiche, ancora attive e pienamente agenti in funzione disgregatrice,  dei poteri universalistici della Chiesa cattolica e della Massoneria.

L’antiunitarismo  pontificio (Gramsci) è stato una delle cause determinanti della mancata unità italiana dai tempi di Federico II di Svevia al Risorgimento ed ha comportato un ritardo storico, politico  e civile di di sei secoli. Esso prosegue  il suo ruolo nefasto con l’umanitarismo moralistico  degli appelli pressanti a favore dell’accoglienza indiscriminata dei migranti (senza nulla fare per lo Stato italiano). Quanto alla Massoneria, superfluo sottolineare il suo ruolo nell’odierno cosmopolitismo ultracapitalistico delle élite finanziarie sovranazionali.

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