in difesa del Manifesto del Fronte del Dissenso
Il Fronte del Dissenso, in occasione della sua Assemblea nazionale del 22-23 aprile del 2023, ha adottato, oltre ad uno Statuto e alle Linee Programmatiche, un Manifesto teorico col quale si è inteso iniziare il faticoso percorso costituente per definire una nuova e indipendente identità politico-ideologica. L’amico Emanuele Montagna prima di prendere congedo dal Fronte, ha consegnato una lunga e dura critica al Manifesto. Di seguito la risposta in difesa del Manifesto.
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Confessiamo che ci fa molta fatica rispondere al documentone col quale Emanuele Montagna ha tentato, senza però riuscirci, di demolire il Manifesto del Fronte. Chi lo abbia letto con l’attenzione che merita non è sfuggito che la sua è una stroncatura senza appello, infarcita con contumelie che sconfinano in un’acrimonia che nessuna licenza poetica è riuscita a mitigare. Ci offende anzitutto, perché insincera e irrispettosa, l’accusa che il Manifesto non sia stato il risultato di un’ampia, profonda elaborazione collettiva. Egli rifiutò di partecipare alla sua elaborazione. La triste sensazione è che il nostro non creda davvero a quanto giustamente afferma, che dobbiamo considerarci una “officina del pensiero critico costituente”; che piuttosto cerchi, coi toni più che coi contenuti, di spingere la controversia fino alla rottura. Speriamo di sbagliarci.
Costa fatica rispondere anche per altre ragioni. Il documentone non segue né una struttura narrativa lineare né un ordine logico-politico rigoroso, utilizza invece lo stile sincopato e rizomatico di una sceneggiatura teatrale. La trama è estenuante: 48 pagine in risposta ad un Manifesto che ne ha 6. E dobbiamo considerarci fortunati poiché il nostro ci dice anzi che “il documento doveva essere molto più lungo” e che lo farà “seguire da uno scritto più corposo”. Si salvi chi può!
Fatte le dovute proporzioni e fossimo ampollosi come Emanuele in risposta alle sue 48 pagine dovremmo scriverne ben 384. Evitando ogni irrisione e improperi tenteremo (nella misura del possibile, non quindi a spese della complessità) di essere chiari e semplici — non facile impresa poiché il documentone ha una sua densità teorica, per di più appesantita da stucchevoli estetismi concettuali. Ci dobbiamo scusare in anticipo per non essere riusciti ad evitare passaggi di difficile lettura. Indicheremo prima l’area teorica centrale di contrasto per poi passere a quelle periferiche.
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L’essere umano, creatura creante, custode e non padrone del mondo, è il vero e proprio punto archimedeo che sta a fondamento del Manifesto. La sua emancipazione da ogni forma di oppressione materiale e di alienazione spirituale è il nostro scopo ultimo nonché la fonte della nostra passione politica. È autentico progresso solo quello che pone questa emancipazione come fine. Questo si può raggiungere solo trasformando la società, il luogo dove oppressione e alienazione sorgono e prendono forma. È nella lotta per trasformare la società che l’uomo, diventando soggetto consapevole, trasforma anche se stesso attuandosi così come vero e proprio essere. «Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo». [Archimede] Tra tutti i mezzi necessari per questa trasformazione gli uomini stessi sono quello essenziale.
È su questo fondamento etico-filosofico che poggia il concetto di “Nuovo Umanesimo” o, per meglio dire Umanesimo Reale — in altre parole la visione del mondo contenuta nel Manifesto. «Di tutte le cose l’uomo è misura, di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono» [Protagora]. In quanto esseri umani, nulla di umano ci è estraneo: «Homo sum humani nihil a me alienum puto». [Publio Terenzio]. Consideriamo anzi un dovere categorico avere cura, oltre al mondo naturale, degli altri uomini, per sollevarli dal dolore e dalla sofferenza, prendendoci quindi a cuore le pene degli oppressi. «Se uno volesse comportarsi come un bue, potrebbe naturalmente volgere le spalle alle pene dell’umanità e preoccuparsi solo della propria pelle». [Karl Marx]
È l’idea della Humanitas come valore supremo, come paideia, sede di tradizione, ragione, altruismo, cultura, tensione verso l’avvenire. In quanto umani aventi medesima natura e concatenati l’uno all’altro in seno alla comunità, siamo una parte del tutto dove questo tutto è superiore alla somma delle sue parti — di qui il rifiuto dell’individualismo egoistico, l’idea dell’uomo come persona e cittadino integrale. Questa grandiosa concezione dell’Humanitas propria della migliore tradizione ideale e politica greco-romana, attraverso il cristianesimo, nutrì l’Umanesimo, sfociò nel Rinascimento, quindi, per molteplici e contraddittorie vie, trapassò nella moderna civiltà europea, contribuì al suo progresso spirituale e scientifico, alle sue rivoluzioni democratiche, fino ad incarnarsi nel movimento socialista che ne raccolse il testimone.
È in questa cornice che si può comprendere il discorso sulle “radici” che ha suscitato perplessità ed anche aspre critiche. «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana…L’amore per il passato non ha nulla a che fare con un orientamento politico reazionario. Come tutte le attività umane, la rivoluzione trae tutta la sua linfa da una tradizione». [Simone Weil]
Il Manifesto rivendica la grandiosa tradizione umanistica (non quindi tutto ciò che ha prodotto la civiltà europea) per cinque ragioni principali: (1) noi siamo, volenti o nolenti, suoi figli; (2) essa è ancora viva ed è la sola base per rifondare un’identità politica all’altezza dei tempi; (3) essa soltanto disegna una visione del mondo alternativa a quella transumanista marchio di fabbrica del cybercapitalismo; (4) è solo con coloro che si considerano eredi di questa tradizione umanistica che è immaginabile avviare e portare a compimento un processo costituente per costruire un nuovo partito rivoluzionario; (5) l’umanesimo può costituire un ideale punto d’incontro con le altre civiltà le quali tutte, al netto delle loro specificità, hanno avuto i loro propri umanesimi.
Ebbene, se si spoglia il documentone dai suoi arzigogoli barocchi e dai suoi détournement teoricisti si scopre che il suo nucleo nascosto è un radicale antiumanesimo. Questo antiumanesimo radicale viene fatto entrare in scena con variopinti travestimenti (non poteva mancare quello di un marxismo di scuola). Ora, qual è la sorgente filosofica da cui sgorgano i diversi rivoli dell’antiumanesimo? È il nichilismo, di cui Nietzsche è l’indiscusso capostipite. Nel ‘900 questo nichilismo filosofico ha assunto svariate forme e impregnato di sé diversi le principali correnti di pensiero: l’heideggerismo, lo strutturalismo, il post-strutturalismo, l’ermeneutica, il postmoderno. Un concetto essenziale accomuna, al di la delle differenze, tutte queste correnti: la liquidazione come illusoria e metafisica dell’idea che gli uomini siano soggetti e artefici della loro propria storia. Quindi: l’idea del definitivo tramonto del soggetto e la sua cancellazione per opera di ordini e sistemi sovrapersonali oggettivi (Lévi-Strauss); l’uomo come soggetto è un’invenzione e un effimero prodotto della modernità, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma (Foucault); occorre ridurre in polvere il mito filosofico dell’uomo…la storia è un processo senza soggetto (Althusser); la cosa ha sempre il primato sul soggetto… l’essere-linguaggio parla al posto dei parlanti (Gadamer); quindi Lacan il quale, portando alle estreme conseguenze la teoria freudiana dell’inconscio come oscuro sottosuolo che inesorabilmente tutto determina, nega esista una soggettività auto-cosciente… “penso dove non sono, dunque sono dove non penso”.
In ultima istanza è la riproposizione, pur proteiforme, del determinismo. Lo stesso determinismo, sostenuto, a modo loro, dai sacerdoti del post-transumanesimo (soprattutto dai cervelloni delle neuroscienze) che proprio in base a questa loro concezione filosofica di matrice cartesiana (l’uomo è una macchina e il pensiero è solo un prodotto di processi elettrochimici del cervello) teorizzano l’ibridazione con l’intelligenza artificiale e l’avvento della nuova era cyborg.
Triste a dirsi ma proprio il determinismo — la concezione per cui il mondo si regge grazie a leggi necessarie invarianti che escludono cambiamenti casuali ed eventi contingenti imprevisti, un mondo in cui non c’è posto né per il libero arbitrio né per la funzione determinante del soggetto politico —, la vera e propria cifra filosofica ed epistemologica del documentone, il tronco da cui si dipartono come rami tutte le accuse contro il Manifesto. Tra le diverse maschere con cui si traveste il determinismo quella che ci esibisce il nostro è addirittura sub specie gnosticorum doctrinae (ci torneremo più avanti).
Individuato il tronco, sorvolando sui punti d’attacco capziosi e futili del documentone, proviamo a discendere giù per li rami principali, smontando quindi i quattro capi d’accusa.
POLITICISMO. La prima accusa che Emanuele rivolge al Manifesto, non senza perfidia, è quella di “politicismo”. Qui come in altri casi l’accusatore, aduso ad un linguaggio criptico e approssimativo, evita di provare questa accusa e lascia trapelare che intenda opportunismo. Ma andiamo al sodo: se per “politicismo” si vuole dire che la sfera politica ha la primazia su tutte le altre, che tra tutte le pratiche quella politica è quella suprema, ebbene sì, in quanto organizzazione politica che ha una missione politica, non possiamo non essere “politicisti”. Ma il bersaglio del nostro è forse il concetto teorico di “Autonomia del Politico”. Il discorso sarebbe lungo, si dovrebbe iniziare da Machiavelli, passando per Hobbes e Vico, per giungere a Lenin, quindi a Carl Schmitt e a Mario Tronti.
Noi effettivamente pensiamo che la politica non sia un mero riflesso dell’economia, e che l’avanguardia politica, posto che deve tenere conto della realtà oggettiva e dei rapporti di forza, può svolgere un’azione creativa e volitiva sua propria, non si limita quindi ad assecondare gli eventi ma agisce, se necessario, per cambiarne il corso. All’opposto c’è solo la concezione codista e oggettivista degli spontaneisti per cui non il partito dovrebbe guidare ed educare le masse popolari ma questo è ad esse subordinato. Dove si arrampica Emanuele per giustificare la sua accusa? Allo specchio di Marx quando, nell’Ideologia Tedesca, considerata la sfera ideologica e morale (quindi politica) un mero riflesso della struttura economico-sociale, nega qualsiasi autonomia all’ideologia (e alla politica) concludendo che “non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. In verità c’è una relazione biunivoca di codeterminazione tra vita e coscienza, per cui, come la vita materiale plasma la mia coscienza, la mia coscienza può determinare e cambiare la mia vita. Beninteso: se sono proletario non posso diventare borghese con atto di coscienza ma, se lo voglio e possiedo i necessari strumenti spirituali, posso cambiare la mia coscienza, diventando dunque altro da ciò che ero, poiché non sono né bestia né homo oeconomicus, ma un essere sociale dotato di libero arbitrio.
SOGGETTIVISMO. Nel documentone più volte si irride agli illusi che immaginano di possedere il Libero Arbitrio. Accade inevitabilmente quando si abbraccia la concezione del materialismo deterministico, forma immanentistica del fatalismo trascendente di matrice religiosa. Per Libero Arbitrio si intende la facoltà del soggetto, grazie alla volizione, di decidere cosa pensare e di stabilire gli scopi del proprio agire. Il soggetto è soggetto proprio in quanto, posto davanti ad un aut aut, può e deve decidere che fare, quale mossa compiere, quale strada scegliere. Saremmo dunque “soggettivisti” per pensare che non siamo né macchine, né replicanti bensì esseri umani? Saremmo dunque “soggettivisti” perché consideriamo la volontà una condizione imprescindibile per lottare e resistere in condizioni avverse, perché dedichiamo la nostra vita ad un ideale? Allora sì, siamo “soggettivisti”.
Di più, pensiamo che mai come di questi tempi si può sperare di costruire un grande soggetto politico, ovvero ottenere la fiducia di larghe masse senza militanti, certo preparati, ma con una volontà di ferro. Emanuele insinua che qui siamo alla nietzschiana “volontà di potenza”. Nulla di più falso. Per i nichilisti la “volontà di potenza” è figura impersonale che indica la disposizione a accrescere in modo illimitato pulsioni e desideri, di qui l’idea del superuomo, il relativismo valoriale, il rifiuto di ogni ideale morale, l’idea che non esistono verità e fatti ma solo interpretazioni, il disprezzo per le masse e l’ideale aristocratico. A causa di questo equivoco il nostro ripetutamente irride come scandalosa l’affermazione che noi, allo scopo di battere il nostro nemico, “non ci faremo scrupoli”. Quel che implicitamente s’intende con questo concetto è che rivendichiamo, sul solco di Machiavelli, la concezione realista e non irenico-utopistica della politica, per cui l’azione politica è prassi per dare un indirizzo ai processi sociali, in essenza è lotta per il potere, il quale è mezzo per attuare degli scopi. Quindi sì, in linea di principio, il fine può giustificare i mezzi.
CAPITALISMO. Una delle scene più goffe del copione di Emanuele è quando attacca il Manifesto per l’uso del sostantivo “capitalismo” e non invece dell’aggettivo “Capitale” (rigorosamente con la C maiuscola). “Vergogna! Da Marx siamo finiti a Sombart e Weber!”. “Si deve dire società del capitale, non capitalismo” insiste il nostro. Evitiamo una discussione sulla lana caprina.
Come dovremmo chiamare la società in cui sono dominanti i rapporti di produzione capitalistici? La chiameremo nel modo più semplice e chiaro: capitalismo. — come si dice schiavismo il sistema basato sulla schiavitù: feudalesimo quello basato sulla signoria e il vassallaggio; o socialismo quello basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio. Sombart e Weber sono stati i primi ad utilizzare questo sostantivo? Embè? Marx non prese forse a prestito da altri veri e propri concetti sia in campo filosofico che economico? Saremo ancora più assertivi. Preferiamo il concetto di capitalismo perché, di contro ad un volgare economicismo, indica che esso è un sistema sociale plastico e complesso, che include, oltre alla sfera economica, quelle statuale, giuridica e ideologica. In sintesi perché sottolinea la relazione osmotica tra struttura e sovrastruttura. Il concetto più spesso evocato da Emanuele del “Capitale” come “principio determinante”, se non è una vuota astrazione, mentre ingarbuglia la questione, svela una mentalità figlia del determinismo anti-soggettivista di cui sopra. Ecco quindi l’idea sciocca che i capitalisti siano dei meri “funzionari del Capitale”, essi stessi servi e, beninteso privi di libero arbitrio — vallo a dire a Elon Musk, Jeff Bezos o Bill Gates.
Qui siamo nel regno della metafisica: il “Capitale” concepito non come una figura storica bensì come un Essere, o una spinoziana Sostanza che produce e si manifesta in infiniti modi e attributi che da essa geometricamente e necessariamente dipendono. Emanuele ci ha rimproverato, in merito all’era della tecnica e del passaggio epocale al cybercapitalismo, di utilizzare criteri presi in prestito da Heidegger. In verità, se al posto di Tecnica ci mettiamo il “Capitale”, quel che abbiamo è proprio l’ontologismo heideggeriano solo trasfigurato: «Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza». [M. Heidegger] A noi, poveri cristi, davanti all’onnipotenza malvagia del “Capitale”, non resterebbe (heideggerianamente) che attendere che la storia faccia il suo corso, abbandonando ogni illusione “soggettivistica” e “politicista” di poterne cambiare il corso. Non resterebbe che fuggire dal mondo cybercapitalista, cercare un rifugio in comunità conventuali separate più o meno agresti immaginate come semi della nuova umanità (Agamben docet). In questo mondo bucolico, accanto a coloro che pasceranno pecore, ci sarà posto per la casta dei nuovi sacerdoti che spiegheranno come, in questo mondo governato dal male, la salvezza sta nell’evitare ogni contaminazione, nel capire che tutto ciò che il “Capitale” ci fa vedere è falso, che dietro ai fenomeni apparenti, si cela il vero, che solo titolari di un sapere esoterico possono comprendere. È lo gnosticismo sotto mentite spoglie.
TECNICA, SCIENZA E SAPERE
L’attacco che viene portato al discorso sugli “amorosi sensi tra scienza e capitale” è francamente cervellotico, per non dire incomprensibile. Sorge il sospetto che la posizione del documentone sia conforme a quella di certo post-strutturalismo, ovvero quella di un disprezzo anarchicheggiante del sapere scientifico in quanto considerato consustanziale e presupposto del potere, ove ogni potere è sinonimo di oppressione sociale (Foucault). Per dirla con Gilles Deleuze: «Non c’è sapere e scienza che non implichi l’esercizio di un potere in atto».
Il Manifesto rifiuta di gettare il bambino con l’acqua sporca, di ripudiare a priori la modernità e tutti i suoi risultati. La teoria copernicana, la scoperta della circolazione sanguigna, la legge della gravitazione universale (vette della rivoluzione scientifica del ‘600), non erano maligne manifestazioni del dominio di classe della nascente borghesia. Né i dispositivi tecnologici come il cannocchiale, il telescopio, la bilancia a pressione, il barometro, il microscopio, la stessa pascalina, vennero pensati come strumenti per meglio opprimere e sfruttare i proletari.
Il Manifesto afferma — a proposito di “sussunzione formale e reale” tirata in ballo dal documentone — che solo ad un certo punto del suo sviluppo, per la precisione con la Rivoluzione Industriale della seconda metà del ‘700 in Inghilterra, il “Capitale” è riuscito a subordinare a sé la scienza, facendone uno strumento micidiale per alimentare la sua propria volontà di potenza, posto che «La rivoluzione industriale è stata la più fondamentale trasformazione della vita umana in tutta la sua storia». [Eric Hobsbawm].
Il Manifesto sottolinea quindi che con la Quarta Rivoluzione Industriale l’umanità e alle prese con un minaccioso salto di civiltà con devastanti e speriamo non irreversibili conseguenze antropologiche (Emanuele parla a sua volta di “salto di specie”). «La Quarta Rivoluzione Industriale funge da anticamera del cybercapitalismo. Per velocità e ampiezza la supererà tutte e tre le precedenti messe assieme».
Sul piano gnoseologico il Manifesto porta una netta critica alla concezione positivistica della “scienza” concepita come forma suprema di sapere e forma di conoscenza privilegiata; respinge la concezione fisicalista e riduzionista che va per la maggiore in campo cybercapitalista, quella secondo cui non solo le scienze naturali ma pure quelle morali dovrebbero adottare i principi metodologici e il linguaggio della fisica. Quindi: «Se la scienza è conoscenza certa, questa può esserci solo grazie all’incontro dei più diversi saperi».
La tecnica non è il mero insieme degli strumenti e dei dispositivi tecnologici, questi sono solo i mezzi con cui essa si manifesta e sovrasta il mondo e la vita. L’orologio non è la somma dei suoi ingranaggi, è l’oggetto che misura il tempo. La Tecnica è la più alta forma di razionalità che si sia mai data, è la forza produttiva alla sua massima potenza, è la forza motrice del cybercapitalismo, è l’oggetto diventato soggetto e demiurgo della storia, è l’apparato tecnocratico che si alimenta a spese delle esigenze dell’uomo. Come il denaro, con lo sviluppo del capitalismo, da mezzo è diventato fine, così la tecnica è diventata il fine all’insegna del quale ogni scopo può essere realizzato.
Di qui dunque il dilemma con cui il Manifesto si apre: «accettare o impedire che venga alla luce la creatura-mostro che il capitalismo globalizzato porta in grembo…. Che implica la definitiva subordinazione dell’organico all’inorganico, del biologico al sintetico, del naturale all’artificiale».
A questo punto della storia come possiamo sperare di impedire che il mostro venga alla luce? Poste contraddizioni oggettive e condizioni soggettive, potremo riuscire nell’ardua impresa solo se essa poggia su fondamenta ontologiche e antropologiche: «Gli esseri umani, se posti davanti alla scelta tra schiavitù e libertà, tra menzogna e verità, tra la morte e la vita, sempre sceglieranno la libertà, la verità e la vita».
Emanuele respinge queste fondamenta umanistiche. In 48 pagine non ci ha però detto quali sarebbero diverse, più giuste e adeguate fondamenta. Questo mutismo, dopo tanta logorrea, è il sintomo dello spettro nichilista che attraversa il documentone, ciò che ne fa un edificio costruito sulla sabbia.